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franco testa disegni preparatori
Autore: Massimo Demma 13 apr, 2022
Ritrovare e osservare tra i lavori di Franco, che Irvana sta accuratamente ordinando e catalogando, diversi schizzi preparatori per tavole che poi ha completato, mi ha affascinato non meno dei lavori finiti. Spesso lo vedevo quando cominciava a disegnare velocemente una prima traccia di impaginazione, studiando la distribuzione dei pieni e dei vuoti, le proporzioni, l’atteggiamento nel caso di animali e il portamento per le piante; in più riprese, rifacendo in parte o anche daccapo, su carta da fotocopie e su carta da lucido.
Franco Testa, Umberto Eco e il Lavater
Autore: Sandro Fusina 12 dic, 2021
Sandro Fusina ripercorre il viaggio artistico di Franco Testa a partire dagli anni 70, con le preziose illustrazioni per la riedizione del 1974 del Libro Lavater, fino all'approdo ad Airone e al duraturo sodalizio costituito con L'Erbolario
Autore: Massimo Demma 19 nov, 2021
Ogni tanto la ritrovo, e quando la guardo penso che era un esperimento, una prova.
Autore: edoardo osti 04 ott, 2021
"Gentilissimo Sig. Rossi, queste sono le mie proposte per i quattro francobolli di altrettanti campioni equini che mi ha chiesto" - comincia così la lettera, illustrata come di consueto e inviata a Ottaviano Rossi, Direttore Generale del' Azienda Autonoma di Stato, Filatelia e Numismatica di San Marino. Nacque così, nel xxxx, l'idea di immortalare 4 campioni di un'era straordinaria per il mondo ippico. Nomi pesanti come Ribot, Molvedo, Tornese e Varenne, divennero oggetto di un lungo studio da parte di Franco Testa: fu proposta una prima versione monocroma, poi, al termine di uno studio anatomico e cromatico dei campioni in esame, furono realizzati i bozzetti definitivi, che potete vedere qui di seguito. (spazio per i bozzetti) L'opera completa è disponibile per l'acquisto nella pagina di vendita , alla sezione dedicata agli animali.
Autore: Edoardo Osti 30 set, 2021
Il primo ricordo della guerra è una delusione. Mio papà – credo nel 1941, avevo quattro anni – decise che ero pronto ad affrontare la visione di un film. Ricordo benissimo, mentre salivamo alla balconata del Cinema Coccia di Novara, i lampadari accesi formati da grappoli di sfere bianche. Quasi subito si spensero, c'era un allarme aereo. Ce ne tornammo a casa e il mio primo film lo vidi dopo il '45. Le cose proprio brutte arrivarono un paio di anni dopo. In famiglia eravamo in cinque, mamma, papa e tre bambini, due maschi e una femmina. Io ero il più grande. Per paura delle bombe su Novara, sfollammo in un'azienda agricola (cascina) di parenti di papà vicino a Oleggio. Non so dire per quanto mesi rimanemmo lì: il più bel periodo della mia infanzia, con le stalle, i cavalli, la raccolta del fieno, i campi e le rogge con tutti gli animaletti che esercitavano un'attrazione potentissima su di me. Mio cugino più grande (15 anni) che una volta mi mise in mano un martin pescatore vivo, che io lascia subito scappare, mi chiamava “il chimico”. La guerra sembrava lontana, compariva solo nei discorsi dei grandi. Purtroppo mia mamma non si sentiva a casa nella cascina. Nata vicino a Piacenza e allevata in un collegio di suore a Rivoli, temo che capisse poco o niente il dialetto locale. Vinse lei, e così ci trasferimmo armi e bagagli dalle parti di sua sorella più grande. Niente meno che Gravellona Toce, in Val d'Ossola. E lì la guerra, o meglio la guerriglia, c'era. I miei peggiori ricordi di guerra riguardano questo soggiorno ossolano. Io frequentavo la prima elementare e dovevo attraversare il paese per raggiungere la scuola. A un certo punto del percorso c'era un incrocio ad angoli retti dove campeggiava una grande mitragliatrice. Una mattina c'era per terra un partigiano ucciso. Una donna – di sicuro sua madre – cercava di pulirgli la faccia sporca di sangue rappreso, usando persino la lingua. I fascisti repubblichini cercavano di scostarla coi calci dei mitra. Un'altra volta mi dissero che i miei fratellini, che erano stati mandati a prendere il latte, furono trascinati all'ultimo istante in un'osteria e sistemati sotto dei tavoli di pietra. Poi cominciò un violento scontro di fuoco. I vicini trattennero mia mamma che voleva uscire a cercarli. Noi stavamo al terzo piano di una casa con le nostre stanze verso la strada. Quelle del calzolaio nostro vicino verso la montagna: questo lato era completamente crivellato da fori di proiettili. Era comunque prudente per tutti collocare il letto contro le pareti, non sotto le finestre. Mio papà – ragazzo del '99 e ufficiale di complemento nella Grande Guerra, non era stato richiamato, perché funzionario di banca a Novara – ci raggiungeva il sabato sera e passava parte della domenica con noi. Dalle conversazioni tra lui e mia mamma venni a sapere dell'eccidio dei 43 di Fondo Toce. Mio papà era sempre nervosissimo e a volte non ero neanche tanto contento del suo arrivo. Molti anni dopo, non da lui, seppi che andando avanti e indietro da Novara a Gravellona, faceva da staffetta per le formazioni partigiane, con documenti pericolosi nella borsa da impiegato. Una notte, credo dopo una breve sparatoria, fummo tenuti svegli dai lamenti di un repubblichino ferito mortalmente all'addome, che si trascinò fino quasi all'alba per le strade chiedendo aiuto con una voce che si faceva sempre più fioca: Non fu soccorso nemmeno dai fascisti: troppo pericoloso. Poi c'erano i ragazzotti della Muti, pericolosissimi, con dei mitra più grandi di loro, bombe e pugnali. Davano l'impressione che bastasse un'occhiata sbagliata per prendersi una raffica. Di altre atrocità sentivo parlare dai miei genitori. Mi ricordo qualcosa di questi loro discorsi, ma preferisco concludere il racconto di Gravellona con un episodio a cui assistetti io stesso. Ero solo in casa, non saprei dire il motivo, forse non stavo bene. La strada che costeggiava la nostra casa da un lato, dall'altra era delimitata da un muro alto neppure due metri, al di là del quale c'era un prato con alberi. Accosto al muro c'era un camion non molto grande con molti repubblichini intorno. Allineate spalle al muro c'erano dodici persone immobili, tra cui un ragazzino. Tutti gli altri si agitavano e gridavano, con le armi puntate un po' verso la direzione della strada, verso monte (che era alla mia sinistra) un po' verso quelli allineati al muro. In fondo alla strada, a sinistra, riuscivo a vedere non molto bene un gruppo di partigiani della formazione cattolica dei fratelli Di Dio, riconoscibili dai fazzoletti azzurri. Fra i due gruppi, quello fascista sotto la mia finestra e i partigiani, era in corso una trattativa per uno scambio di prigionieri. La merce di scambio dei fascisti erano quei dodici poveri ostaggi di cui sopra. Non si sparò, nessuno fu ucciso, probabilmente lo scambio si poté fare. Però a ogni interruzione delle trattative, i dodici ostaggi venivano venivano inquadrati dalle armi del plotone di esecuzione. Poi, all'ultimo istante: “Alt”, si ridiscute. Non ricordo quante volte la “fucilazione” fu ripetuta. Mi è rimasto in mente il colore delle facce dei disgraziati: lo stesso grigio degli stracci bagnati che si usano per i pavimenti. Lasciammo la Val d'Ossola prima del 10 novembre del '44, cioè poco prima della proclamazione della Repubblica dell'Ossola, che fu spazzata via dai rastrellamenti tedeschi e repubblichini del 22 dicembre. Andammo nel paese natale di mio papà, Cameri, dove l'aeroporto era ovviamente in mano tedesca. Lì si viveva un po' come nel paese del XIV secolo descritto negli Annales. Mancava quasi tutto, spesso anche la luce elettrica. Però si era in campagna e non si soffriva tanto per il cibo come a Novara o a Milano. Ci furono dei bombardamenti, anche: per un paio di settimane una grossa formazione di fortezze volanti arrivava tutti i pomeriggi (evidentemente pensavano di avere ormai poco da temere dalla contraerea tedesca) a sganciare tonnellate di bombe sul ponte di Turbigo. Tuttavia ricordo molto bene che una volta un bombardiere fu colpito, prese fuoco, perse un'ala e vedemmo i paracadute dell'equipaggio. Alla fine il ponte con strada e ferrovia finì nel Ticino e lì rimase per molto tempo dopo la fine della guerra. Venne finalmente la fine. Noi bambini, sul portone carraio, vedemmo passare davanti camion, autoblindi, cannoni ecc. della Wehrmacht in fuga dal campo di aviazione; due giorni dopo arrivarono gli alleati, coi Sherman e le canzoni di Glenn Miller, il cioccolato e il latte condensato. Vedemmo con entusiasmo anche il primo uomo di colore – nero – della nostra vita. Franco Testa
Autore: Edoardo Osti 30 set, 2021
Da una serie di appunti inviati a un amico nell’aprile 2017)
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